lunedì 9 marzo 2015

Alla scoperta della colorista francese Isabelle Merlet

L'universo intuitivo d'Isabelle Merlet 
(professione colorista)

da EO le blog
22 aprile 2011

Fumetto, illustrazione, disegno, manifesto, animazione... tutto ciò che coinvolge l'immagine disegnata ci interessa.


Laureline Mattiussi. L île au poulailler. Glénat

Se gli sceneggiatori di fumetto sono ignorati dai premi e dai media, il o la colorista viene dimenticato(a) ancora di più.
Il colore è considerato un argomento di vendita (è quasi impossibile oggi pubblicare un fumetto in bianco e nero, troppo complicato fare foto in bianco e nero, impossibile avere un televisore in bianco e nero), tuttavia è considerato secondario nell'espressione del fumetto.
Ora, nel nostro mondo che guarda tutto con gli occhi della tecnica e vorrebbe applicare questo delirio di maestria all'arte, il colore rimane uno spazio intuitivo che sfugge all'analisi. In un'epoca che nega la dimensione soggettiva dell'essere umano, la vuole sminuire con valutazioni e, instaurando una competizione generalizzata tra tutti, diffonde il fantasma dell'equivalenza di ogni individuo, mi è sembrato interessante prendere in esame un lavoro che va oltre qualsiasi paragone.
Isabelle Merlet ha parecchi talenti, taluni ancora da svelare. Dopo aver colorato più d'una cinquantina di album, ci parla di questa singolare forma d'espressione, che consiste nel dare una nuova dimensione a un universo già costituito, amplificandolo senza tradirlo. Un'arte che combina il rispetto e l'audacia, esprime il suo stile in armonia con gli stili di lavori molto differenti. Nelle sue realizzazioni, tutte risultato di tatto e invenzione, Isabelle ci affascina. Sebbene vengano solo dopo, i suoi colori risplendono come una sorgente.



"Sentirsi a proprio agio con il colore non è una cosa che s'impara"



Loïc Dauvillier / Olivier Deloye / "Dickens". Oliver Twist. Delcourt



JEAN-LUC COUDRAY: Tu eserciti una professione rara, quella di colorista di fumetti, dal 1990, e a tempo pieno dal 2006. Prima questo lavoro conviveva, nella tua vita, con altre attività artistiche. Perché questa attività ha preso il sopravvento?
ISABELLE MERLET: Dopo gli studi passavo da un'attività a all'altra, da un progetto all'altro con molta voglia di fare, senza preoccuparmi della loro redditività. Ma nel 2006 ho avuto bisogno di denaro da una banca, e mi sono resa conto che avevo bisogno, provvisoriamente, di concentrarmi solo su un'attività. Specializzandomi in scultura o grafica, mi sembrava di non avere molte prospettive d'evoluzione. Ho scelto il colore, dove avevo una buona rete di conoscenze. Sapevo che avrei potuto trarne piacere, malgrado la sua ripetitività, e continuare a esplorare.

J.-L. C.: La professione di colorista di fumetti, come attività principale, è così rara? Conosci altre persone che fanno questo lavoro? Le frequenti?
I. M.: Ne conosco alcune, ma non ho occasione di vederle. Ognuno lavora nel suo angolino e sono rari i festival che invitano i coloristi. Non conosco coloristi che fanno questo lavoro regolarmente, diciamo almeno due album all'anno.




Jean-Denis Pendanx / Kris. Svoboda. Futuropolis



"Si tratta di un'arte minore per cui non bisogna aspettarsi alcun riconoscimento"

J.-L. C.: Sembrerebbe un'arte che contiene un paradosso. Da un lato è molto specializzata. Dall'altro invece richiede un'apertura e una relazione verso stili grafici molto differenti. Che ne pensi?
I. M.: Sentirsi a proprio agio con il colore non è una cosa che s'impara. Ma per essere colorista bisogna soprattutto imparare a leggere stili di rappresentazione molto diversi, con la loro coerenza, incoerenza, con le loro carenze, con il loro virtuosismo, etc. Comprendere come funziona senza giudicare, e saper usare questa comprensione nel miglior modo possibile. È grazie alla lettura quotidiana del disegno che si elabora questa abilità.
Il colore del fumetto non concerne solo il disegno, si deve anche progettare legandolo alla narrazione. Se è per dare un inutile riempitivo alla storia oppure appesantire le immagini, tanto vale andare in pensione! La politica attuale di colorare tutto spinge molti a lavorare il colore senza porsi il problema della sua pertinenza.
Gli autori abbandonano questa parte della creazione ai coloristi, dicendo a se stessi che sono loro, i coloristi, gli specialisti!
Eppure il colore non è insegnato da nessuna parte, non esiste nessun'opera di riferimento sull'argomento e nessuno è capace di fare una critica fondata.
Il paradosso è piuttosto questo, direi... in ogni caso, la cosa certa è che si tratta di un'arte minore, per cui non bisogna aspettarsi nessun riconoscimento.

J.-L. C.: Si potrebbe pensare il colore come la parte emotiva, l'atmosfera, nel fumetto. Allo stesso tempo, esso potrebbe avere il ruolo di accrescere la leggibilità, la luce? In poche parole, una parte soggettiva, una parte oggettiva. Si potrebbe paragonare ciò al ruolo della musica in un film?
I. M.: Sì, se non che la musica di un film esiste senza il film, mentre il colore di un album non può esistere senza l'album. È perché, da un punto di vista giuridico, i coloristi non sono considerati come autori. Si ritiene, che il loro apporto all'opera non si può dissociare dall'opera preesistente in bianco e nero. È un fatto indiscutibile, il colore senza il disegno non può esistere. Però non si pubblica mai l'album in bianco e nero, allora come si fa a sapere ciò che il colore porta all'opera? Bisognerebbe poter paragonare le due letture, con e senza colore.

"Si rimane troppo spesso dell'idea che la ritrascrizione di una realtà passi attraverso un certo realismo"

J.-L. C.: Dici di aver rimpiazzato la concezione “manierista” del tuo esordio, con una volontà secondo cui il colore serve tutt'al più alla narrazione. Potresti dirci come fai a mettere in pratica questa continuità, questo svolgimento?
I. M.: Quando parlo di manierismo, penso a quello scoglio dell'aggiungere forme completando il disegno. Come da tradizione, facevo molti effetti, velature, sfumature, trasparenze, riflessi, etc. In definitiva ci si rinchiude nell'immagine perdendo di vista l'essenziale: accompagnare il racconto. Ho preso coscienza di questo difetto e ho tentato di correggerlo.
Aggiungere precisione o realismo al disegno è un tranello in cui cadono molti. Si ha il riflesso d'intervenire sull'immagine come se si trattasse di una foto da ritoccare, è idiota! Ora, provo a valorizzare gli elementi presenti nel disegno, a farli risuonare tra loro senza toccare nulla. Mi concentro su narrazione, ritmo, sequenze, momenti chiave.

J.-L. C.: Questa volontà narrativa entra in conflitto con certe scelte estetiche?
I. M.: Condividere la propria visione del colore sottintende adottare misure radicali. Il conflitto nasce quando la richiesta di un autore o di un editore si concentra proprio su una resa “pseudo realista”. Quando si è ottenebrati dal colore dei vestiti o della pelle dei personaggi, si perde di vista l'impressione generale della pagina. E certamente è l'impressione generale che bisogna privilegiare, i dettagli sono percepiti raramente durante la lettura di un fumetto.
Prendere la decisione di tagliare la realtà per essere più vicini alla verità, non è un passo facile da spiegare. Ma i colori classici di un tramonto non daranno per forza la sensazione del sole che tramonta, mentre dei colori, che non hanno niente a che vedere con il reale, possono farci provare più esattamente delle emozioni reali. Troppo spesso si rimane dell'idea che la ritrascrizione di una realtà passi attraverso un certo realismo, tale idea è falsa.
Il reale passa per mezzo di qualcosa di vivo.
A volte comincio dal fare quello che ci si aspetta da me con l'idea di far accettare ciò che ho in mente.
È tortuoso, ma ci si arriva.

J.-L. C.: Sembri presentare la tua colorazione come una valorizzazione del lavoro del fumettista disegnatore, e se fosse l'inverso? Che è il disegno invece a valorizzare i tuoi colori?
I. M.: Non ci ho mai riflettuto, dovresti essere più preciso su cosa intendi!
Vuoi dire che sono io che faccio il lavoro più appariscente, che colpisce di più l'occhio, e che mi servo del disegno degli altri per mostrarlo? :-)


Anne Baraou/François Ayroles. Les Plumes. Dargaud



"Essere messi a confronto con lo spazio dell'altro limita le possibilità, ma ciò permette altresì di avere una posizione molto chiara"

J.-L. C.: C'è uno stile “Isabelle Merlet” malgrado la varietà di lavori grafici che passano sotto il tuo pennello (elettronico). Come spiegarlo?
I. M.: Non posso spiegarlo... tutti fanno un lavoro riconoscibile, mi sembra. La tavolozza e le scelte di luce o di contrasto di colori tornano spesso, come in un pittore. È la stessa cosa nel disegno, si cambia lo strumento, il formato o lo spazio vitale, ma lo sguardo non cambia.

J.-L. C.: Cerchi delle dissonanze, delle disarmonie, per rompere con la tentazione di un bello troppo confortevole?
I. M.: Sì, altrimenti si resta nella graziosa gamma di colori delle riviste tipo Marie Claire Décoration. Ma, a meno di farlo decisamente apposta, è raro non essere seducenti col colore, è davvero un campo di seduzione. Con il tratto e il nero si può trovare una più grande originalità. Non so, cosa ne pensi?

J.-L. C.: Prima di colorare, c'è il lavoro che consiste nel contornare degli spazi, di delimitarli. C'è qualcosa di simbolico nel creare spazi, nel delimitarli, nel riempirli?
I. M.: La sensazione rassicurante di non fluttuare nello spazio tempo, può essere!

J.-L. C.: Occupare lo spazio altrui è una maniera di testare altri punti di vista (come un'anima in un corpo altro dal proprio)?
I. M.: Non so... credo piuttosto che sia il bisogno di creare su qualcosa di preesistente. Io me lo spiego con la condizione di non essere la creatrice del progetto, ma piuttosto di sostenerlo o forse di trasformarlo (un po'). Essere messi a confronto con il lavoro dell'altro, limita le possibilità, ma ciò permette anche di avere una posizione molto chiara. Le scelte sono più semplici. Il disegno finale nel complesso è giudicato meno rispetto al proprio intervento singolo, dunque lo si può apprezzare meglio. In questo modo, è possible staccarsene anche meglio e sviscerare tutte le sue possibilità narrative.

J.-L. C.: I coloristi sono ignorati di più degli sceneggiatori nel fumetto? C'è qualcosa di rassicurante nell'esercitare una professione di cui non si parla? O è una frustrazione?
I. M.: Tutt'e due! Frustrazione e sicurezza coesistono.
Non si parla dei coloristi perché, mettendo troppo in risalto il loro lavoro, si complicherebbero i rapporti economici con gli editori. Gli autori talvolta restituiscono l'1% dei loro diritti d'autore, ma non sono obbligati a farlo. Guadagnano talmente poco che non sono ottimista su come la situazione potrebbe evolversi...
Quanto agli sceneggiatori, può essere che siano ignorati perché il loro “savoir-faire” non è così spettacolare come quello dei disegnatori, non si saprebbe cosa dir loro.
La scrittura è un meccanismo troppo misterioso per interrogarsi sulle sue competenze.
Nella scrittura si progredisce come si fa nel disegno o nel colore? Cos'è che motiva la scrittura di una sceneggiatura?

J.-L. C.: Riesci a esprimerti completamente nel tuo lavoro?
I. M.: La colorista si esprime completamente, ma siccome non sono solo colorista, il mio lavoro non è un'espressione totale. Sviluppare dei progetti personali richiede un'energia che non ho più, dopo due mesi di lavoro su un album. Tanto più che quindici giorni dopo bisogna riprendere a lavorare su un altro!
Sono frustrata per la mancanza di tempo, sì. Ma questi ritmi non dureranno in eterno.

J.-L. C.: Su quale supporto lavori? Schermo, tavoletta grafica? Hai già colorato direttamente sopra un “blu” o un originale a pennello?
I. M.: Ho un Mac 21 pollici e una tavoletta Wacom A5. Utilizzo del materiale vecchio, ma non ho bisogno di altro. L'informatica non m'interessa e, al di fuori del mio lavoro su Photoshop, non so fare niente con il computer. Non ho né sito, né blog.
Fino al 2005 pensavo di non poter far niente al di fuori dello sfumato con l'acquerello. Ma siccome sapevo cosa mi serviva, ho imparato in quindici giorni a usare Photoshop. Bisogna dire che ho avuto un professore molto bravo, il mio compagno Jean-Jacques Rouger (autore e colorista). Si occupa della gestione dei dati e del materiale. Se lui non è qui con me e c'è un guasto, io divento una disoccupata tecnologica.



Ruppert & Mulot. Sol Carrelus. L Association



J.-L. C.: Hai già colorato in bianco e nero?
I. M.: Sì, per l'album di Ruppert e Mulot, Sol Carrelus à l'Association. In un primo momento loro volevano il colore, ma io ho proposto loro l'idea del bianco e nero. La loro storia avviene in un castello, in una serata mascherata completamente fuori di testa, che finisce male.
Ho pensato al cinema espressionista e ho fatto qualche pagina, lavorando la luce e la profondità di campo, con un lavoro di disegno a inchiostro preliminare per portare un po' di fragilità e cancellare l'effetto piatto dell'elaborazione al computer. Non c'era un budget e alla fine furono Florent e Jérome che si incaricarono di fare il disegno a inchiostro, io ho fatto la parte “al computer”. È stato molto più interessante della maggior parte delle colorazioni classiche che ho potuto fare. È questo tipo di cose che mi diverte, un lavoro di ricerca, non per forza in quadricromia.

J.-L. C.: Utilizzi degli “effetti” di Photoshop come i “falsi effetti acquerello”, per esempio?
I. M.: No, nessun effetto Photoshop, né di colore né di materia.

J.-L. C.: Ci sono certi stili grafici, rispetto ad altri, che tu preferisci colorare? Rifiuteresti certi album?
I. M.: Sì, certo, ho delle preferenze, ma non sono tanto grafiche, quanto narrative. Anche se non mi piace un disegno, se la storia mi piace, faccio il libro. Non vale, allo stesso modo, il contrario. Ciò premesso, un disegno storico-realistico inchiostrato male, anche se con una bella storia, oggi io lo rifiuto senza pensarci!


Pascal Rabaté. Un petit rien tout neuf avec un ventre jaune. Futuropolis



"La leggibilità è il primo lavoro, l'equilibrio e l'armonia sono il secondo"

J.-L. C.: Tu sei anche disegnatrice. Questa dimensione ti aiuta a comprendere meglio il disegno degli altri?
I. M.: Sì, sicuramente.

J.-L. C.: Si rimane delusi dall'impressione del libro?
I. M.: La perdita è obbligatoria, poiché si passa da colori percepiti mediante una proiezione luminosa a dei colori ritrascritti con gli inchiostri sulla carta.
Ma se il capo progetto fa bene il suo lavoro, l'essenziale dev'essere conservato.
Ciò che conta è l'aspetto d'insieme delle relazioni tra i colori, anche se è sempre frustrante che tutte le micro sottigliezze spariscano e che nessuno veda mai quanto ho lavorato!

J.-L. C.: I disegnatori ti ringraziano per il tuo lavoro? Ricevi altrettanti ringraziamenti da parte degli sceneggiatori? Degli editori?
I. M.: Sì, i disegnatori mi ringraziano, anch'io ho diritto a dei regali. Gli sceneggiatori (che non sono disegnatori) non dicono niente la maggior parte del tempo. Recentemente uno sceneggiatore del cinema voleva che facessi delle immagini “da cinema” per un album. Il disegno era fantastico, ma al cinema non c'è del tratto nero intorno alle persone e alle cose, hai notato!? Allora, siccome non volevo innervosirmi, ho lavorato con il disegnatore senza tener conto dei suoi commenti. Quando lo sceneggiatore in questione ha ricevuto l'anticipo di contratto, in cui gli chiedevo di restituirmi lo 0,5% dei suoi diritti d'autore, ha detto: “Non va, no! Perchè lo dovrei fare?”
Ma nell'insieme non mi lamento, ho buoni rapporti con gli autori.
Quanto agli editori, dipende dalle persone, certi seguono il mio lavoro, altri non dicono nulla. Può essere che, una volta ingaggiata, si fidino di me... ho voglia di crederci!

J.-L. C.: Ci sono alcuni disegnatori che tu sogni di colorare?
I. M.: Sì, ce ne sono molti. Tra quelli che non sono più tra noi, ma di cui rifarei molto volentieri i colori di un album, ci sono Hergé e Pratt. Ci sono quelli che non fanno più fumetti, come Sempé, di cui sogno di colorare un disegno (per una copertina del New Yorker, per esempio). E poi ci sono tutti quelli che non hanno bisogno di me, come Tardi, Moebius, De Crécy o Gipi...


Gipi. Notes pour une histoire de guerre. Actes Sud BD.



J.-L. C.: A livello puramente tecnico, utilizzi, immagino io, il “secchiello” per riempire delle aree chiuse. Ma dopo? Lo strumento pennello, lo strumento matita? Puoi spiegarci?
I. M.: Utilizzo principalmente tre strumenti: matita, secchiello e gomma! Poi mi servo molto delle maschere e dei modi di fusione dei livelli. Faccio il meno possibile di sfumato ed evito tutti i filtri artistici. Grossomodo, utilizzo l'1% delle possibilità del software!
Per iniziare, seleziono le zone a matita su un nuovo livello, separato dal tratto originale. Lavoro su un file in quadricromia a 300 DPI.
Una volta fatta questa suddivisione in zone (è il lavoro più fastidioso, se ne occupa Jean-Jacques quando io non ho abbastanza tempo), applico il colore per tappe, e ogni due interventi mi fermo, per prendere le distanze da quello che ho fatto. Infatti è solo dopo qualche giorno che ci si rende conto di ciò che non funziona.
La leggibilità è il primo lavoro, l'equilibrio e l'armonia sono il secondo, la dissonanza e la regolazione del ritmo si fanno per ultimi. Dopodiché si fa una rifinitura per correggere l'insieme: tutti i piccoli dettagli che si son lasciati passare e che l'autore punta col dito.
Nell'insieme è tanto lungo quanto il lavoro tradizionale, a volte di più.
Sui blu, ci andrei più cauta, per non dover rifare tutto. Non mi porrei troppe domande!
Ora che non sono più limitata tecnicamente, faccio più ricerca. Ciò permette di non stancarsi troppo.

Traduzione dal francese di Elena Zanette

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